“Proteggere la salute dell’atleta è uno degli obiettivi del Comitato Olimpico Internazionale (IOC)”. Inizia con questa frase il Consensus Statement dello IOC pubblicato nel 2014 e relativo a Triade dell’Atleta Donna (Female Athlete Triad - FAD) e Carenza Energetica Relativa nello Sport (Relative Energy Deficiency in Sport - RED-S). I disturbi del comportamento alimentare (DCA) hanno iniziato ad essere osservati e studiati con più attenzione in medicina dello sport intorno agli anni Ottanta del secolo scorso e rientrano a pieno titolo nel contesto di FAD e RED-S.
I DCA meritano una digressione tecnica su FAD e RED-s. La FAD è una condizione patologica definita inizialmente nel 1992 da un gruppo di esperti dell’American College of Sports Medicine radunatisi per trovare un consensus su un tema di crescente interesse, ovvero una triade di problematiche osservate in atlete donne (adolescenti e giovani adulte) e caratterizzate da DCA, amenorrea ed osteoporosi. Nel 2007 l’evidenza scientifica e clinica ha dimostrato il ruolo prioritario del deficit energetico nell’insorgenza della FAD, sottolineando inoltre la ripercussione delle conseguenze patologiche del deficit energetico stesso su sistema immunitario, metabolico, osseo, cardiovascolare e psicologico. Inoltre, è risultato evidente come questa carenza energetica non sia prerogativa della popolazione atletica femminile, ma sia presente anche in quella maschile (seppur in percentuali inferiori). Da qui è nata la definizione di RED-S, che include dunque un ampio spettro di alterazioni fisiologiche e psicologiche che traggono origine sempre da un’alterata disponibilità energetica in un contesto sportivo.

La disponibilità energetica è per definizione la quantità di energia ottenuta dalla dieta che rimane a disposizione per i processi fisiologici corporei dopo un esercizio fisico. Quando l’introito calorico della dieta non è sufficiente a coprire fabbisogno metabolico basale e spesa energetica data dall’esercizio fisico, si instaura un deficit energetico che porta (nel tempo, naturalmente) all’insorgenza di FAD e RED-S.
I DCA sono la prima causa delle alterazioni nella disponibilità energetica. E’ necessario distinguere disordered eating (DE) ed eating disorder (ED). Il DE è una definizione generica che descrive uno spettro di comportamenti nutrizionali volti al controllo eccessivo dell’alimentazione in ottica di perdita peso o mantenimento di diete restrittive. L’ED è invece una condizione clinica che si declina in manifestazioni patologiche come anoressia nervosa, bulimia nervosa, binge eating ed altri disordini nutrizionali (ben descritti in categorie diagnostiche nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5)). I DCA dunque rientrano nella categoria degli ED.

La distinzione fra DE e ED è molto utile nella pratica clinica e spesso non è facile capire se la persona sia affetta dall’uno o dall’altro. Trattare un DE prima che diventi un DCA è il primo step nella risoluzione del problema. Soprattutto nel contesto di medicina e nutrizione sportiva, è importante ricordare che è molto diverso avere a che fare con atleti professionisti o amatori. I professionisti infatti hanno a disposizione normalmente un team multidisciplinare di professionisti (allenatore, medico, nutrizionista, fisioterapista, fisiologo, psicologo) che ha più probabilità di riconoscere un DE prima che diventi DCA, trattandolo dunque adeguatamente. Al contrario, un amatore non ha abitualmente a disposizione un team dedicato: quindi, identificare una problematica di DE che può sfociare in DCA è più sfidante e maggiormente difficile da trattare, una volta confermata la diagnosi.
Negli anni ho avuto modo di lavorare con diversi atleti amatoriali in cui ho riconosciuto una forma di DCA, prevalentemente anoressia e bulimia nervosa su popolazione femminile: spesso donne di discipline endurance rivoltesi a me per una programmazione nutrizionale adeguata alla singola disciplina. Ho imparato a riconoscere alcuni segnali, che a partire dal primo colloquio suggeriscono la potenziale presenza di un DCA. Ho imparato anche che spesso le persone non hanno idea di avere un DCA, o meglio in cuor loro magari lo sanno ma non sono pronte ad ammetterlo con se stesse fino in fondo. Ho imparato che la fiducia, soprattutto in se stessi, richiede pazienza: per questo spesso la consapevolezza del DCA è avvenuta proprio nel mio studio, magari al secondo o terzo appuntamento, arricchita alcune volte da confessioni molto intime alle quali ho sempre prestato enorme attenzione.
La “nominazione”, cioè il dare un nome, una definizione a qualcosa è un atto linguistico di straordinaria importanza: nel momento in cui nomini qualcosa, quel qualcosa esiste. Perciò, ammettere con se stessi (magari ad alta voce ed in presenza di qualcun’altro) di avere un DCA o semplicemente di “non stare bene” e di aver bisogno di aiuto è il primo e più impegnativo passo nella gestione del problema. Una volta definito ed inquadrato il quadro clinico, è importante fornire alla persona spiegazioni riguardo la problematica stessa e le potenziali strategie di trattamento. Spiegare e comprendere sono parte integrante del trattamento stesso. Ecco perchè lavorare con una persona affetta da DCA richiede tempo, dedizione e consapevolezza di un approccio multidisciplinare.
Innanzitutto, se la persona è allenata da un preparatore atletico, l’allenatore deve essere a conoscenza del DCA: una delle strategie per la ripresa dell’attività sportiva (return to play, RTP) stilata dallo IOC infatti è proprio aumentare l’introito calorico riducendo il carico allenante per consentire il ritorno ad un bilancio energetico efficiente. Nei casi più seri di DCA, l’atleta (professionista o amatoriale) deve fermarsi o svolgere gli allenamenti sotto stretta supervisione medica. A livello amatoriale capita purtroppo ancora troppo spesso che siano proprio alcuni allenatori a dare un’enfasi scorretta o eccessiva al peso corporeo, mettendo apertamente in discussione la forma fisica dell’atleta e creando un legame totalmente scorretto fra performance e peso corporeo stesso (nei casi peggiori, con “suggerimenti nutrizionali” impropri e privi di fondamento scientifico).
Nella maggior parte dei casi l’atleta vuole tornare ad avere una vita “normale” e ad allenarsi il prima possibile. Il processo decisionale che porta al RTP è prevede il prioritario ripristino di una condizione fisiologica, valutando primariamente lo stato di salute dell’atleta ed i requisiti specifici dello sport praticato. Guarigione e conseguente RTP sono ottenuti con maggior successo in presenza di un lavoro coordinato fra medici, nutrizionisti, allenatori e psicologi.

Il supporto psicologico è infatti fondamentale: pur riconoscendo di avere una problematica che va ben al di là del mero conteggio calorico, molti pazienti sono restii a chiedere un aiuto perché ancora legati a molti bias relativi alla psicoterapia stessa. Paura della bilancia, del peso, dello specchio, del giudizio altrui; tendenza a “riempirsi” di cibo per colmare vuoti interiori, per poi compensare quelli che sono considerati a sproposito introiti calorici eccessivi; abitudine a “punirsi” con l’assenza di cibo come riflesso di situazioni familiari disfunzionali o problematiche soggettive. Quelle menzionate sono solo alcune delle sfumature psicologiche dei DCA che ho avuto modo di osservare ed ascoltare da nutrizionista e per le quali ho chiesto a mia volta supporto a vari psicologi con i quali ho proficuamente collaborato. La psicologa Federica Sartini entrerà più nel dettaglio su queste tematiche.
Sono stata felice di aiutare Virginia lo scorso anno poco prima della preparazione di una sua gara di ultraendurance: il nostro rapporto di amicizia e fiducia reciproca è stato senza dubbio importante, ma ascolto e pazienza sono state le prime e fondamentali carte vincenti. I DCA sono un pò come gli attacchi di panico, di cui ho sofferto circa vent’anni fa: persi quasi 18 chili in 3 mesi, perché il primo attacco di panico arrivò proprio mentre stavo mangiando ed il collegamento fra attacco di panico e cibo fu immediato. Dagli attacchi di panico si guarisce, ma resta sempre una sorta di “imprinting” per cui stanno lì, pronti a tornare a galla. Non importa, si impara a gestirli e si guarisce: con tempo, pazienza, umiltà e perseveranza. Si guarisce anche dai DCA: ne sono prova concreta le persone che ho visto tornare ad una vita “normale” in questi anni, così come il piccolo Noah Alexander (il bimbo di Virginia) ed il figlio di un’altra mia paziente che sembrava non aver la forza di uscirne, e invece…
Bibliografia
- Mountjoy M, et al. Br J Sports Med 2014;48:491–497.
- Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM-5)
Scritto da
Elena Araldi
Biologa Nutrizionista da Milano
Club: A.S.D. Pfizer Italia Running Team
Allenatore: Julia Jones